Chi era Renato Serra?

SERRA

"I poeti che amo... li amo perché son fatti per amarli; e qui finisce la critica". Così Renato Serra ventitreenne scriveva all'amico Ambrosini. Ed in quella frase densa fissava la sua estetica.

Paradossalmente si può dire che, secondo i parametri in uso, Serra non è propriamente un critico. Era un filologo nato, nutrito di severi studi classici, e non gli era estranea la problematica della filosofia europea del suo tempo; ma di tutto ciò si serviva come di un sottofondo esistenziale, accessorio al momento esaltante e supremo della lettura di poesia. Del resto neanche il pur adorato maestro, Carducci, a Serra appariva "né uno storico né un critico propriamente"; ma subito correggeva: "Spesso non sa criticare, ma sa leggere; sempre".

In che senso, dunque, Serra era un critico?

Prima di tutto era un critico-lettore. A Borgese, per esempio, rimproverava di essere un lettore "senza delizia di impressioni precise".

L'itinerario critico del Bibliotecario di Cesena, anche se guidato da perfezionatissimi strumenti di indagine testuale, si concludeva nel piacere di un contatto vitale, insieme rassicurante, liberatorio e profondamente personale, con la poesia.

La critica era per lui un momento del vivere, il più disinteressato, e in un certo senso il più riconoscente alla vita. Sapeva trasferire nell'esercizio del leggere la complessità inesauribile delle suggestioni della vita, incantesimi, illusioni, amarezze, interrogazioni, esaudimenti. La sua "lettura" aveva un timbro assai più esistenziale che tecnico, più volto a cogliere nel proprio animo le risonanze interiori suscitate da una pagina o da una frase che non la loro individuata esemplarità espressiva.

Ma non fu il critico del "frammento" o della poesia pura.

Semmai la sua è una lettura frammentistica a parte subiecti, giacché il dato permanente del rapporto con la poesia si trova, nel lettore, fuori della poesia, nella vita, nei suoi episodi, nelle sue occasioni. La poesia è, per il Serra, come uno specchio in cui si riflettono, in una sorta di ininterrotto confronto e arricchimento, poesia e critica.

Era, poi, un critico-scrittore - senza dubbio quello di più alta qualità e di più vibratile poesia del nostro Novecento - che aveva il bisogno e il dono di restituire creativamente, nel proprio stile, le emozioni della lettura.

Ed era, infine, un critico-testimone. Come viveva, appartato, nella sua Cesena o nella Biblioteca Malatestiana che dirigeva, oppure tra la gente comune, mescolato alle passioni di tutti, il gioco, le donne, il paesaggio della sua pascoliana Romagna, così pubblicava per lo più su fogli di provincia, estraneo ai movimenti, ai gruppi, alle riviste ideologiche, alle carriere accademiche e ai manifesti dell'avanguardia. E tuttavia visse il suo tempo con appassionante fraternità, con intelligenza partecipe; la religione delle lettere si trasformava naturalmente in lui, con malinconica limpidezza, in una religione della vita.

Alle prese con una letteratura che, dopo i contrastati fasti della "triade" D'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, stava rapidamente maturando nella sostanza in un confronto europeo sempre più ravvicinalo e quotidiano, e che tuttavia non aveva ancora maturato le sue scelte più significative e chiarificatrici (Ungaretti, Campana, lo stesso Saba non fece a tempo a conoscerli nella loro vera stagione), Serra seppe orientarsi con chiarezza e riconoscere a sufficienza limiti e novità. Ma soprattutto seppe accostarsi con animo di vero contemporaneo, con un accenno di partecipazione severa, ma amichevole, che rappresentò una novità vera, e dette un colpo di grazia alle consuetudini accademiche del lavoro critico. Da questo punto di vista la sua lezione è perenne, e serve largamente a bilanciare gli errori, le indulgenze verso troppi minori, le sordità che gli si possono addebitare.

Non si possono riaprire le sue pagine, compreso il bellissimo Epistolario, senza essere colpiti dalla infinita messe di intuizioni, di suggerimenti, di spunti, che rispecchiano al meglio il singolare rapporto di lealtà al suo tempo, la profonda "generazionale" fraternità con la letteratura, che fu e rimane il suo dono più prezioso. Sono le sue pagine su Pascoli la sua prova critica più significativa e duratura. Non solo sono ancora bellissime per la partecipazione autobiografica, con squarci di prosa lirica commossa e struggente; ma sono una straordinaria anticipazione di tutti i motivi della critica pascoliana posteriore, che può dirsi paradossalmente una lunga parafrasi, beninteso con notevoli arricchimenti, dell'analisi di Serra: "La poesia di Pascoli consiste in qualche cosa che è fuori della letteratura, fuori dai versi presi uno a uno: essa è di cose e nel cuore stesso delle cose"; "una voce bianca che lascia cadere il verso come una cosa venuta da lontano"; e ancora "crea intorno a sé come un senso di pace e pare allora che le parole risuonino come in un grande silenzio". Grande critica, e in qualche misura profetica, perché mai come in queste pagine di cent'anni fa abbiamo avvertito il presagio del Novecento, quell'insieme di "angoscia e voluttà" con cui il nuovo secolo vedeva allontanarsi i fantasmi, le forme artistiche e gli ideali dell'Ottocento.

Ma un altro dei momenti alti del critico romagnolo, accanto all'Esame di coscienza di un letterato, è quello del saggio Per un catalogo, dove campeggiano le figure del Croce e del Carducci in un dialogo o canto amebeo il cui protagonista è lui, Renato Serra. E' straordinaria la musicale semplicità con cui lo scrittore scioglie i nodi complessi tra attenzione, intensità critica e abbandono autobiografico, tra passione intellettuale e nostalgia, nel segno di una profonda, irrevocabile fedeltà al proprio destino. Conosco pochi scrittori che possono dire "io" con una modulazione così forte e così sommessa, "mormorio di inquietudine e di incertezza", ma anche ricco di orgogliosa solitudine. (...)

Serra è stato uno di quei grandi sconfitti del secolo, ma la sua inquietudine è ancora la nostra. Se, alla fine, Serra non ci appaga con nessuna risposta, tuttavia continua a vivere, per quello spiraglio di libertà incondizionata che aveva intravisto nel rapporto con la vita-poesia, in molte delle nostre ricorrenti domande. E non è senza significato che proprio lui, dopo aver scritto la famosa frase "la guerra non cambia niente", che a molti apparve oltraggio alla Storia, in nome di un presunto egoismo di piccolo letterato, abbia offerto, all'indomani, quasi a compenso, sulla trincea del Podgora, la sua vita.

Prof. Luigi Sciarra
Dirigente Scolastico a.s. 2006/07
75° Anniversario ITC "R. Serra"